lunedì 8 dicembre 2025

SE I PARTITI ITALIANI FOSSERO OPERE LETTERARIE

 Sia ben chiaro, la scelta di Fratelli d’Italia di chiamare la propria kermesse giovanile “Atreju” è affascinante, ma si poteva fare di meglio. Il personaggio di Atreju, protagonista del romanzo “La storia infinita”, combatteva contro il Nulla, ma in politica spesso il problema non è tale mancanza assoluta, ma il suo opposto, l’eccesso di retorica, promesse, esteriorità vana.

Quindi vado in soccorso degli uffici stampa dei partiti italiani e suggerisco loro come trovare una nuova identità letteraria, magari davvero onesta, calzante e decisamente ironica.
Ecco come ribattezzerei le loro convention, attingendo ai grandi classici: vediamo come sarebbero i maggiori politici italiani se svolgessero la propria attività nelle opere letterarie.





Fratelli d'Italia: Dottor Jekyll e del Mr Hyde
Iniziamo proprio con il partito leader e con un duplice personaggio ispirato al romano di Stevenson. Già, perché da un lato abbiamo la Premier in posa istituzionale, con idee atlantiste, che rassicura i mercati, dialoga con la Von der Leyen, con diversi leader stranieri e firma patti di stabilità in puro stile moderato. Dall'altro, nell’oscurità della notte, ecco spuntare l'anima di lotta che in realtà guarda al passato e “vorrebbe riscrivere la storia”. Militanti che urlano nei comizi spagnoli di Vox, vedeno complotti "gender" nelle scuole di ogni ordine e grado, occupano la RAI, portano avanti commenti di intolleranza nelle proprie chat private e innalzano saluti romani nelle sezioni giovanili. Al(la) protagonista non resta che circondarsi di parenti per ricevere un aiuto, sperando che la trasformazione sua o di qualche suo rappresentante non avvenga in diretta TV, svelando il vero volto inquietante e forse amato da una base che applaude Jekyll, ma in realtà vota per l’Hyde che si credeva scomparto da circa 80 anni.  


Partito Democratico: Amleto
Il personaggio di Shakespeare sembra perfetto per un partito il cui motore eterno e immobile è il dubbio. "Essere o non essere? (davvero di sinistra?)”; “Campo largo o vocazione maggioritaria?” “Avvicinarsi o meno al centro?". Come sede il castello gigantesco e freddo di Elsinore (il Nazareno), pieno di fantasmi del passato che si rivoltano contro i discendenti/esponenti di oggi o che sussurrano in direzioni opposte. Elly Schlein, vestita di nero esistenziale, cammina avanti e indietro sul palco tenendo in mano non un teschio, ma il simbolo del partito, o di quel che ne resta. Come il principe di Danimarca, tra l’altro, tutti avvertono l’imminenza di un tradimento, con uno “Zio Claudio” di turno che trama nell’ombra. La tragedia del PD è l'inazione. Tutti sanno che c'è del marcio in Danimarca (il Paese ha problemi), ma il Principe prende tempo. Convoca una direzione. Poi un'assemblea. Poi una costituente. Mentre Amleto dubita, dietro le tende di velluto (le famigerate e temute "correnti"), Polonio, Laerte e Claudio si stanno già accoltellando a vicenda per una candidatura alle regionali, alle europee o in vista delle politiche. La kermesse finisce sempre allo stesso modo: il palco è pieno di corpi politici caduti ("bruciati"), e arriva un Fortinbras straniero (la destra) a prendersi il regno senza aver dovuto nemmeno sguainare la spada.  


Movimento 5 Stelle: Il castello dei destini incrociati
Calvino
offre il paragone ideale per un gruppo di viandanti che, una volta entrati nel Palazzo, sembrano aver perso la parola, dato non possono più urlare "Vaffa" nelle piazze perché ora indossano la cravatta. Sono costretti a raccontare la loro storia usando i Tarocchi, quel linguaggio politichese che in passato avevano sempre abiurato. Naturalmente, come nell’opera, il significato muta continuamente e ogni singola storia cambia in base a chi la racconta: le carte del "Cambiamento" e del "Reddito" assumono un valore opposto a seconda che si incrocino con la carta "Lega" (Conte I), quella "PD" (Conte II), col "Banchiere" (Draghi). Esce poi la carta del Bagatto (Il Mago): nel 2013 significava Beppe Grillo, oggi è Giuseppe Conte che fa giochi di prestigio con le percentuali. Esce la carta della Torre: un tempo era la distruzione della "Casta", oggi è la ristrutturazione col Superbonus 110%. Esce l'Impiccato: è il limite dei due mandati, magari con la formula del "mandato 0" che tiene appesi per i piedi i veterani del partito. Giuseppe Conte siede a capotavola e prova a interpretare queste carte per dare un senso logico alla storia. "Vedete," dice indicando tre carte a caso, "l'alleanza con la Lega e poi quella col PD erano parte dello stesso destino!". Nessuno ci crede, ma gli ospiti sono muti e annuiscono.

È una narrazione combinatoria eterna: puoi rimescolare le carte (o i principi fondanti) all'infinito, sperando che esca la combinazione vincente che li riporti al 30%. Ma dal mazzo continuano a uscire solo due di picche. 


  Lega: Moby Dick
Qui la metafora con l’opera di Melville si scrive da sola. Al timone della nave c'è il Capitano Salvini, zoppicante come i suoi decreti e divorato da un'unica, cieca ossessione: ritrovare la leggendaria Balena Bianca (il 34% delle Europee 2019); l’ha vista, quasi toccata, e ora la sogna da sempre. Per inseguire questo mostro mitologico che ormai vive solo nei ricordi, il Capitano costringe la ciurma a una navigazione folle, cambiando rotta ogni giorno a seconda del vento dei social. La differenza con il libro è che questo Ahab, in preda al panico da sondaggio, non lancia l'arpione solo contro la balena: lo lancia contro qualsiasi cosa si muova in acqua. Un giorno arpiona gli autovelox, il giorno dopo la farina di grillo, poi i monopattini, quindi gli immigrati, ancora il CBD, infine i giudici.
Il primo ufficiale Starbuck
(Luca Zaia) e il secondo ufficiale Stubb (Massimiliano Fedriga) si scambiano sguardi preoccupati. Sanno che la Balena è andata, migrata in altri mari (verso Fratelli d'Italia). Vorrebbero tornare a caccia di prede più semplici e sicure (l'Autonomia), ma il Capitano è impazzito. Ordina di lanciare arpioni contro tutto ciò che vede o di imbarcare chiunque, persino il Generale Vannacci,  o magari vorrebbe attraccare la sua nave sotto il Ponte sullo Stretto.  L'equipaggio continua a remare per inerzia, terrorizzato dal momento in cui il Capitano, nel tentativo finale di colpire la Balena, trascinerà l'intera nave negli abissi dell'irrilevanza politica. 


Forza Italia: Il fu Mattia Pascal
Niente di meglio di Pirandello per la storia di un'entità che è ufficialmente "passata a miglior vita" (politicamente, con la scomparsa del fondatore), ma che cerca di costruirsi una nuova identità con il nome di "Adriano Meis" (o Antonio Tajani). La manifestazione surreale di un partito che vive nel limbo: vorrebbe essere libero dall'ombra ingombrante del passato per rifarsi una vita, ma scopre che senza quel "documento d'identità" (il nome Berlusconi nel simbolo) non esiste socialmente. I leader attuali vorrebbero ricominciare una nuova esistenza, ma non ci riescono.
I vecchi congiunti (alleati) si sono rifatti una nuova vita, per cui gli attuali esponenti, citando l’opera del premio Nobel, “chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s'aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d'accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa”. 


Italia Viva: Il Grande Gatsby
L’opera di Fitzgerald ci proietta l’immagine perfetta per il partito dello scintillio, del lusso e dell'ottimismo americano, dove tutto sembra possibile, tranne superare la soglia di sbarramento. Matteo Renzi è il perfetto Jay Gatsby: un self-made man carismatico e misterioso, con un passato in giro per il mondo (magari per qualche conferenza) che organizza feste sontuose — la Leopolda come la villa a West Egg — piene di luci, slide e jazz, sperando di attirare l'attenzione. 
                                                                                 

Ma cosa guarda davvero Renzi dal molo della sua solitudine dorata? Fissa incantato una luce verde lontana e irraggiungibile: non l'amore di Daisy, ma il 40% del 2014. Il suo dramma è racchiuso nella frase simbolo del libro: "Non si può ripetere il passato? Ma certo che si può!". Lui ne è convinto. Peccato che, come nel romanzo, alle sue feste tutti bevano volentieri il suo champagne (approfittando delle sue manovre di palazzo), ma quando la musica finisce e le luci si spengono, alle urne non rimane nessuno. Nemmeno Nick Carraway


Azione: Il Galateo
Come Monsignor Giovanni Della Casa, anche Calenda vuole insegnarci qualcosa: come governare un Paese di scostumati che non studiano. Qui si combatte contro i congiuntivi sbagliati, le coperture finanziarie assenti e il populismo sguaiato di chi mangia con le mani (metaforicamente e non). La kermesse si basa su regole rigidissime: non si può dire "voglio andare in pensione prima", è scortese verso l'INPS; non si può dire "il nucleare mi fa paura", è da villani antiscientifici; se un elettore fa una domanda provocatoria, il Monsignore non risponde: lo blocca, perché il blocco su Twitter è l'equivalente moderno dello schiaffo con il guanto di velluto.  

Calenda spiega perfettamente come si apparecchia la tavola della democrazia: dove va la forchetta della Sanità, quale bicchiere usare per l'Istruzione, come non fare rumore mentre si gestisce il PNRR. Il problema è che, a furia di rimproverare i commensali perché masticano male o hanno i gomiti sul tavolo, alla fine resta a cenare da solo. La manifestazione si chiude con lui seduto a capotavola, in una sala vuota ma elegantissima, che mormora: "Gli altri partiti vinceranno anche le elezioni, ma vuoi mettere la soddisfazione di avere ragione?"  


Alleanza Verdi e Sinistra: Don Chisciotte della Mancia
 Cervantes ci guida tra lance e armature arrugginite. La festa del popolo ideale per chi vede giganti fascisti e mostri capitalisti anche dove ci sono solo banali mulini a vento. Una saga cavalleresca dove il nobile ideale si scontra costantemente con la goffaggine della realtà, cavalcando un ronzino (la percentuale elettorale) che fatica a reggere il peso di tutte quelle battaglie etiche lanciate contemporaneamente, con molta poca attenzione per il mondo e i problemi concreti. E dove Sancio Panza cerca disperatamente di spiegare che la "transizione ecologica" non si paga con le buone intenzioni.

Il mondo continua ad essere guardato non com’è, ma come dovrebbe essere, e tutto ciò può anche essere romantico, ma resta molto poco pragmatico. Né il Don né AVS si arrendono mai; stremati, ignorati, derisi, ripartono con la convinzione che la prossima carica sarà quella buona, verso un “Sol dell’Avvenire” che forse, ormai, è alle spalle. 


+Europa: Aspettando Godot

I leader del partito, così come i personaggi di Beckett, aspettano. Attendono il Federalismo Europeo, la Ragione che trionfa sul populismo, il momento in cui gli italiani inizieranno a votare leggendo i dossier per un liberalismo senza regole e confini. Un’attesa infinita, un dramma in due atti. Nel primo i protagonisti passano il tempo in discussioni intellettuali elevatissime. I loro ragionamenti sono complicati, non destinati alle masse. Difatti, intorno a loro il pubblico non c'è, o se c'è non capisce. Passano altri personaggi (Pozzo e Lucky, forse Calenda e Renzi?), fanno un gran baccano, si scambiano insulti, promettono rivoluzioni, cadono e si rialzano. Didi e Gogo li guardano con un misto di compassione e orrore: "Sono così poco europei", sussurrano, aggiustandosi la bombetta. Nel secondo atto, per ingannare l'attesa, i protagonisti provano a fare ginnastica: cambiano nome alla lista. Prima "+Europa", poi "Stati Uniti d'Europa", poi "Per l'Europa con...". 

Sembra che si stiano muovendo, che stiano costruendo qualcosa di nuovo. Ma quando la polvere si posa, sono esattamente nello stesso punto: sotto l'albero del 3,9%, a chiedersi se questa volta l’alleanza reggerà o si spezzerà all'ultimo minuto. Alla fine c'è solo l'eterna attesa di un futuro radioso che è sempre a portata di mano, ma che scivola via ad ogni scrutinio, con i protagonisti che dicono sempre di voler andare via ma alla fine devono restare aggrappati a chi può farli entrare in Parlamento. 


Noi Moderati: L'uomo invisibile
Questa non è una festa di partito, è un fenomeno paranormale. La manifestazione si tiene in una sala conferenze apparentemente vuota. Le sedie sembrano libere, i corridoi deserti. Eppure, se si tende l'orecchio, si sentono fruscii, colpi di tosse discreti e il rumore di fogli che si spostano: sono loro. Sono i Moderati. Come nel romanzo di Wells, il leader Maurizio Lupi (lo scienziato Griffin) ha tentato l'esperimento chimico definitivo: fondere insieme particelle subatomiche della politica (l'UdC, Coraggio Italia, Italia al Centro, un pezzo di Toti, un frammento di Brugnaro) per creare una "Cosa" solida. Il risultato, però, è stato un effetto collaterale imprevisto: il partito è diventato trasparente. Ci sono, votano, sostengono il governo, ma l'occhio umano (e quello dei sondaggisti) li attraversa senza riuscire a metterli a fuoco. Nel libro, l'Uomo Invisibile deve coprirsi di bende, indossare occhiali scuri, guanti e cappotto pesante solo per essere percepito dagli altri. 

Allo stesso modo, Noi Moderati per essere visto deve necessariamente avvolgersi in "strati" che non gli appartengono del tutto: deve indossare il cappotto della Coalizione di Centrodestra, mettersi il cappello di Giorgia Meloni e usare i guanti di Forza Italia. Se si togliessero questi accessori (l'alleanza), se restassero "nudi" davanti all'elettorato, di loro non si vedrebbe più nulla. Svanirebbero nell'aria rarefatta dello "zero virgola". La scena finale si chiude con un momento di alta tensione drammatica, degna del finale del libro. Il leader sale sul palco, il microfono si alza da solo a mezz'aria (poiché la mano che lo regge è invisibile) e urla alla platea: "Noi contiamo! Noi siamo decisivi! Noi siamo il centro!" Dalla sala parte un applauso scrosciante. Ma le telecamere del TG inquadrano la stanza e, vedendo solo sedie vuote, decidono di mandare in onda un servizio sul meteo. 

Insomma, Giorgia Meloni ha voluto scomodare Michael Ende, ma forse ha dimenticato la lezione più importante del libro.

Nella Storia Infinita, il "Nulla" divorava il regno di Fantàsia perché gli esseri umani avevano smesso di sognare e di credere. Guardando questa nostra libreria politica, tra nobili decaduti, cavalieri che caricano mulini a vento, narcisisti solitari e fantasmi in cerca d'autore, la metafora purtroppo regge benissimo.

Solo che qui il "Nulla" non è un mostro astratto: è l'astensionismo. E di fronte a una trama così confusa, ripetitiva e piena di buchi di sceneggiatura, il vero miracolo non è che la storia sia infinita. Il miracolo è che ci sia ancora qualcuno, fuori dal Palazzo, che ha voglia di comprarne una copia.

 E voi? Quale di questi "capolavori" lascereste volentieri a prendere polvere sullo scaffale?



domenica 30 novembre 2025

SANITA' - SCUOLA - SICUREZZA: I PILASTRI INCRINATI DELL'ITALIA

 Da decenni le tre basi che dovrebbero curarci, istruirci e difenderci vengono minate da governi di ogni tipo, con il solo obiettivo di consegnarci un futuro nel quale unicamente chi potrà permettersele sarà in grado di vivere con dignità.






Che sia un piano prestabilito o solo incompetenza, ormai non c’è più tempo.
Dobbiamo agire ora.

Protesta, indignati, denuncia, informati. Non lasciare che i pilastri del nostro Paese siano distrutti, compromettendo il nostro futuro e quello dei nostri figli.

Scrivilo nei commenti e condividi questo messaggio, non lasciare che resti tutto così.


martedì 25 novembre 2025

CRONACHE DALL'INFERNO CONTEMPORANEO - Canto V (i falsi amori)

 Dante entra nel cerchio dei lussuriosi, un peccato che sentirà molto vicino alla propria esperienza. Li vede travolti da un vento che non concede pace, come il desiderio che li ha dominati in vita.
Ascolta la storia di Paolo e Francesca, piange, non può non scorgere quanto fragile diventi l’uomo quando celebra la passione al di sopra di tutto.

Oggi la lussuria non ha più neppure il fascino del rischio: è diventata un prodotto da esposizione, infilata tra un sito por** e l’altro, consumata come un pasto veloce per non pensare alla fame vera.
Sui social, poi, si aggirano personaggi in perenne ricerca dell’ennesimo like allusivo, di un ulteriore messaggio ambiguo, convinti che l’amore sia solo una vetrina.
 C’è una competizione silenziosa: chi accumula più storie, più avventure usa e getta, più “esperienze”, solo costui viene considerato figo, moderno.  Come se il cuore fosse una collezione da riempire, un albun da completare per sentirsi meno soli. I media, poi, ci mettono il resto: ci dicono che amare davvero è roba da sfigati, che la fedeltà è un vincolo antiquato, la profondità è noiosa, il rispetto è facoltativo.

E così finiamo trascinati anche noi da un vento che non dà tregua.
Solo che, a differenza di Paolo e Francesca, non abbiamo nemmeno più il coraggio di chiamarlo amore.

sabato 8 novembre 2025

LO ZODIACO nella tradizione massonica e religiosa

 Origini antiche: il cielo come mappa del divino

Fin dai tempi più remoti, l’uomo ha rivolto lo sguardo al cielo non solo per orientarsi nello spazio e nel tempo, ma anche per decifrare il mistero dell’esistenza.
Lo zodiaco, letteralmente “circolo degli animali”, nasce come rappresentazione simbolica del moto apparente del Sole lungo l’eclittica, dunque suddiviso in dodici costellazioni.
Queste figure non erano soltanto riferimenti astronomici, ma archetipi che collegavano il mondo terreno all’ordine cosmico: ogni segno rifletteva una forza, un temperamento, una legge universale.

È da questo intreccio di astronomia e spiritualità che la simbologia zodiacale si diffuse nelle grandi civiltà mediterranee: in Mesopotamia, in Egitto, nel mondo greco-romano, e infine nelle tradizioni ebraiche e cristiane.


 Lo Zodiaco nella Massoneria: il tempio come immagine del cosmo

Nel simbolismo massonico, lo zodiaco assume un significato di particolare rilievo.
Le volte stellate delle logge non hanno solo una funzione ornamentale, ma rappresentano l’universo ordinato, il “macrocosmo” in cui ogni uomo (il “microcosmo”) trova la propria posizione.

Ogni segno, dunque, non è solo un simbolo astrologico, ma un archetipo morale:

  • l’Ariete, l’impulso e l’inizio;

  • il Toro, la forza e la perseveranza;

  • i Gemelli, la dualità e la comunicazione;

  • fino ai Pesci, simbolo di spiritualità e sacrificio.

La disposizione zodiacale nelle logge richiama il viaggio iniziatico del massone, che attraversa le fasi dell’esistenza in un processo di conoscenza e perfezionamento.
La volta celeste è un richiamo costante all’ordine universale, alla legge armonica che regge il cosmo e che il massone, attraverso la sua opera, tenta di rispecchiare nella costruzione interiore del “Tempio dell’Uomo”.


L’eredità ebraico-cristiana: tra condanna e assimilazione

Il mondo giudeo-cristiano, pur condannando l’astrologia come pratica divinatoria, non riuscì a sottrarsi al fascino dello zodiaco.
L’ebraismo antico, influenzato dalla cultura babilonese e greca, integrò le costellazioni e i segni zodiacali nelle proprie rappresentazioni simboliche del tempo:
nella sinagoga di Beit Alpha (VI secolo d.C.), ad esempio, appare una ruota zodiacale con al centro il dio del Sole, (Helios) un’immagine sorprendente per un edificio religioso ebraico.

Analogamente, il cristianesimo fece dello zodiaco uno strumento iconografico, usato per rappresentare il ritmo delle stagioni e i lavori agricoli del calendario liturgico.
Così, nelle cattedrali medievali  i segni zodiacali compaiono accanto ai mesi dell’anno, in un perfetto equilibrio tra sacro e cosmico.


Dall’Islam alla Rinascita: il ritorno dell’astrologia

Con la fine del Medioevo, le conoscenze astronomiche e astrologiche giunte dal mondo islamico si fusero con la rinascita dell’interesse per l’antichità classica.
Gli astrologi arabi avevano conservato e ampliato i testi greci di Tolomeo e di Aristotele, e la loro diffusione in Europa portò a un rinnovato culto del cielo.

Durante il Rinascimento, lo zodiaco tornò a essere un linguaggio simbolico universale, studiato da filosofi, artisti e scienziati.
Le corti italiane, come quella di Cosimo de’ Medici o dei Gonzaga, commissionavano affreschi zodiacali nei palazzi e negli studioli: il cielo diventava specchio del potere, del destino, della conoscenza.

L’immagine dello “uomo zodiacale”, che associa ogni parte del corpo umano a un segno celeste, sintetizzava l’idea rinascimentale dell’unità tra microcosmo e macrocosmo; la stessa che sopravvive, in forma simbolica, nella filosofia massonica.


 Simbolo universale di ordine e mutamento

Che lo si interpreti come sistema di forze cosmiche, come allegoria morale o come calendario della vita, lo zodiaco rimane uno dei codici più longevi dell’immaginario umano.
Nella Massoneria rappresenta il percorso dell’iniziato verso la luce.
Nel cristianesimo e nell’ebraismo diventa il ritmo sacro della creazione.
Nell’arte rinascimentale, è il ponte tra scienza e magia.

In ogni epoca, guardando le stelle, l’uomo ha cercato di leggere se stesso.
E forse è proprio questo il messaggio nascosto dietro i dodici segni:
che il cosmo e l’anima sono due mappe della stessa, infinita, costruzione.

venerdì 3 ottobre 2025

CRONACHE DALL'INFERNO CONTEMPORANEO - Canto III (gli ignavi social)

 Gli ignavi – Dante così chiamò coloro che, per viltà o opportunismo, non scelsero né il bene né il male. 

Anime senza volto, nell'inferno della storia hanno preferito restare immobili, muti, senza scegliere da che parte stare.


Anche oggi gli ignavi non mancano: sono quelli che tacciono davanti alla corruzione, alzano le spalle di fronte alle ingiustizie, pensano “non mi riguarda” mentre si consumano ingiustizie ovunque attorno a loro. 



Dante li condannava a correre eternamente dietro a un’insegna vuota, punti da vespe e tafani: contrappasso rispetto all'immobilità di chi non ha mai avuto il coraggio di prendere posizione.


E oggi? Oggi la loro pena potrebbe essere opposta: restare immobili, inchiodati a una sedia, costretti a guardare la realtà senza mai poter partecipare.

 Uno scroll infinito di notizie e immagini che non possono toccare, commentare o cambiare.

Alla fine, il destino degli ignavi resta lo stesso: non contano nulla, nessuno li prenderà mai in considerazione per una decisione importante o un consiglio, saranno presto dimenticati già in vita..

lunedì 29 settembre 2025

LA DITTATURA DELL’OVVIO



Fino a qualche tempo fa, in giro per la rete, era considerata quasi una colpa non avere un’opinione, non esprimere la propria idea su una tematica importante; era quasi un peccato non essere partecipi, ma non nel senso positivo, piuttosto in quello chiassoso, polemico, maiuscolato.

Ora, visto che siamo nell’era del 2.0 (anzi, 2 è già vetusto), la dittatura della (im)moralità comune è mutata: non solo devi esprimerti, ma devi anche avere QUELLA precisa opinione.
Quale?

Semplice, quella dell’ovvio. 

Sulla guerra più trend, sul tema politico più cool, sulla polemica più di moda (soprattutto su TikTok), tu DEVI avere quell’idea che tutti i "giusti" hanno abbracciato.
E se la pensi diversamente (il che, spesso, vuol dire semplicemente “pensare”) allora sei un –ista, (scegliete voi la prima parte), un ignorante - e certo! - non segui l’opinione standard, non sei (in)formato, plasmato, modellato secondo i dettami dell’ovvietà, del «lo sanno tutti».

Sembra l’invasione degli ultracorpi
La sera prima è tutto normale, poi, la mattina dopo, ecco spuntare un “baccellone”: la foto con QUELLA posa (non conta sapere cosa indica, viviamo nell’era delle allegorie mute), l’immagine del profilo con QUEL simbolo (che però vive di per se stesso, non si collega con nulla di superiore), uno stato su QUEL programma intelligentissimo (non conta che tu l’abbia capito, ma DEVI averlo guardato e devi commentarlo orgasmicamente), il link a QUEL tuttologo che vi spiega perché siamo tutti fessi tranne lui (ti basta condividerlo per essere salvo, per stare dalla parte dei giusti). 

«E’ ovvio». 

Così ovvio che poi nessuno si preoccupa di capire le ragioni di quella guerra, i punti di vista su quella questione, le alternative a quella idea.
Oggi, una visione alternativa non esiste; e, se solo la vagli, allora sei fuori, non fai parte dell'onda giusta, sei bandito dal regno delle parole corrette, progressiste, moderne.
La salvezza è semplice, non sta nel capire quelle parole, ma nel pronunciarle, nel condividerle, anche se ormai non rimandano più a nulla. 

«
Nomina nuda tenemus», concludeva il suo capolavoro Umberto Eco ; ed il paradosso è che proprio lui risulta essere uno dei più citati dal clan dell’ovvio, anche se, OVVIAMENTE, nessuno di loro lo ha letto davvero.

lunedì 15 settembre 2025

LE SOCIETÀ SEGRETE CHE CONTROLLANO LA STORIA


Non le troverai tutte nei libri di scuola, ma i loro simboli sono ovunque.
Per alcuni si tratta di esagerazioni, ma spesso personaggi influenti ne hanno fatto parte.
Dal medioevo al Risorgimento, dall'Illuminismo ai giorni nostri, ecco 7 società segrete che hanno avuto un'influenza decisiva sul corso della storia


1 – MASSONERIA

Ieri: Presente in molte rivoluzioni, tra cui quella americana e francese, entrambe nate dall'Illuminismo di cui molti massoni erano esponenti. Influenza politica decisiva, anche in molti scandali italiani degli ultimi decenni. Chiara influenza architettonica, con simbolismo occulto in diversi monumenti pubblici.
Oggi: Attiva in tutto il mondo con riti riservati. Influenza effettiva? Ancora dibattuta. 




2 – ROSACROCE


Ieri: Comparsi nel XVII secolo con testi esoterici criptici, la fondazione sarebbe avvenuta da parte del mitico Rosenkreuz il quale avrebbe voluto ridare vita a qualcosa simile ai Templari. Diffondono sapere alchemico, spirituale e simbolico. Nell'Ottocento, con il proliferare degli ordini segreti  ci fu una vera e propria gare nel ritenersi discendenti dei miti RosaCroce. 
Oggi: Molte organizzazioni si richiamano ai Rosacroce, tra spiritualità e segretezza. Attualmente l'ordine è rappresentato dall'AMORC, che conta ben 250 mila adepti in tutto il mondo, movimento iniziatico e filosofico nato in America agli inizi del '900. 



3 – SKULL & BONES


Ieri: Fondata nel 1832 a Yale, nota anche con il nome "The order". Tra i membri: Bush padre e figlio, Kerry. Influenza nel mondo politico USA. Le riunioni avvengono nella sede detta The Tomb, senza finestre così da ottenere maggiore discrezione. 
Oggi: Ancora attiva, annovera tra i suoi membri dei politici, giudici, editori, finanzieri, ecc. Riti iniziatici oscuri, sede blindata e segretezza totale.




4 – THULE


Ieri: Alla base ideologica del nazismo. Fondata nel 1910, si schierò contro le rivoluzioni socialiste dopo la prima guerra mondiale, disciogliendosi quindi nelle tante organizzazioni di destra con l'avvento del Nazismo.  Mistica nordica, razzismo esoterico, legami con Hitler.
Oggi: Scomparsa ufficialmente, ma la sua eredità sopravvive nei movimenti neo-esoterici di estrema destra. 


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5 – ORDO TEMPLI ORIENTIS


Ieri: Associazione esoterica fondata sul pensiero di Aleister Crowley, nata a cavallo tra '800 e '900.  Magia erotica, rituali occulti, filosofia “Thelema”, si è pian piano distaccata dalla Massoneria da cui aveva attinto molto nei primi tempi. 
Oggi: Ancora attiva, con logge sparse nel mondo. Culto semi-pubblico, circondato da mistero, ma senza essere davvero nascosta. 




6 – ILLUMINATI DI BAVIERA


Ieri: Fondata nel 1776 da Adam Weishaupt per contrastare religione e monarchie. Sciolta dopo pochi anni, ma il mito è sopravvissuto. Si trattava di una setta eversiva e aveva come obiettivo il superamento della religione e dell'assetto politico in vista di un nuovo mondo. La setta era strutturata su un ordinamento simile a quello della Massoneria e portava avanti le idee razionalistiche proprie dell'Illuminismo con una carica rivoluzionaria maggiormente accentuata. La lezione degli Illuminati influenzerà molti pensatori successivi, tra i quali ricordiamo Filippo Buonarroti, ma anche Marx. 
Oggi: Simbolo per eccellenza del “potere occulto globale”. Si discute se sia sopravvissuta o meno fino ad oggi, di certo lo è l'idea che sia ancora presente e influenze, anche se nella più completa segretezza. 



7 – GOLDEN DAWN


Ieri: Ordine occulto britannico di fine ‘800, basato sulla Massoneria e sull'influenza dei Rosacroce.  Sviluppò rituali magici, tarocchi, astrologia, alchimia. Crowley ne fu membro. Il nome "Alba d'Oro" simboleggia il momento spirituale del risveglio e dell'illuminazione, quando l'ignoranza (le tenebre) viene dissipata.  Fu un importante centro di rinnovamento spirituale e un punto di riferimento essenziale per l'esoterismo occidentale, diffondendo conoscenze un tempo segrete. 
Oggi: Ha ispirato tutta l’occultismo moderno, dalla Wicca alla magia cerimoniale. 



venerdì 12 settembre 2025

CRONACHE DALL'INFERNO CONTEMPORANEO - CANTO II (l'umiltà dei grandi)

 Nel Canto II dell’Inferno, Dante confessa che “disvuol ciò che volle”: il desiderio di intraprendere il viaggio vacilla, si sente troppo fragile per un compito così alto. È un atto di umiltà immensa: riconoscere i propri limiti davanti a una missione più grande di sé, anche un grande personalità come quella del Poeta deve riconoscere che c'è qualcosa più grande di lui. 

Oggi, invece, l’umiltà sembra una virtù estinta. Nessuno ammette di non essere all’altezza, tutti pretendono di sapere, insegnare e fare qualsiasi cosa. Gli incompetenti si atteggiano a esperti, i superficiali si travestono da maestri, i più ignoranti sono proprio quelli che parlano con maggiore sicurezza, senza avere mai dubbi.

I social hanno offerto a questi personaggi sempre più possibilità di sbandierare il nulla che hanno dentro. 

Dante temeva di non essere “degno”.

 I nostri tempi, al contrario, pullulano di presuntuosi che si credono degni di tutto… salvo poi dimostrare ogni giorno di non essere degni nemmeno di sé stessi.

venerdì 5 settembre 2025

CRONACHE DALL'INFERNO CONTEMPORANEO - CANTO I (La selva oscura)

 “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura…”

Così Dante apre il viaggio: impaurito, perso, ammette di aver deviato rispetto alla strada giusta, solo in questo modo può iniziare davvero il cammino di redenzione. 

La confessione è il primo passo.

Oggi, invece, quanti avrebbero il coraggio di ammettere di essersi persi?

Chi mai confesserebbe di aver commesso anche solo un minimo errore? 


Viviamo circondati da negazionisti fino al midollo:

  • politici che parlano di etica e non ammettono neanche davanti all'evidenza, negano condanne, scandali, errori anche quando ci sono prove e sentenze a condannarli;

  • affaristi che si proclamano paladini della legalità e nascondono i loro imbrogli;

  • uomini di chiesa che predicano povertà senza riconoscere gli errori della loro setta;

  • gente comune che punta il dito, ma senza mai farlo verso il proprio cuore.

Recitano, fingono, sbandierano valori e fede per tornaconto, ma non hanno mai il coraggio di ammettere i propri errori o il vuoto in cui vivono.

Dante, da grande uomo e poeta, confessò il suo sbaglio. 


 I nostri peccatori moderni, invece, preferiscono vendere santità a buon mercato e comprare consenso col peccato.

venerdì 22 agosto 2025

ERNESTO: LO "SCANDALOSO" ROMANZO DI UMBERTO SABA


Ideazione, stesura, titolo





Ernesto è un romanzo incompiuto, parzialmente autobiografico, pubblicato postumo
nel 1975. L’opera ebbe una lunga gestazione dovuta soprattutto all’incertezza
dell’autore sulla materia da affidare a queste pagine.


 Saba inizia a scrivere il libro nei primi mesi
del ’53, in un periodo in cui prende forma la Prefazione a Poesia
dell’adolescenza,
sezione poetica in cui è spinta ai massimi livelli
l’indagine sulla propria infanzia. La prima sezione del Canzoniere, tuttavia,  è
vittima di una sorta di «relativa e ormai cristallizzata indeformabilità»[1] per
cui, nonostante i numerosi rimaneggiamenti subiti,queste poesie non riescono a
svolgere a pieno il loro compito di introduzione alla raccolta.  Ecco, dunque, che Saba decide di giocare la
partita a carte scoperte in prosa.


Da numerosi riferimenti
presenti nell’Epistolario possiamo
affermare con certezza che l’idea di un romanzo fosse nata molti anni prima del
‘53, anche se la struttura del futuro lavoro cambia spesso forma e i
riferimenti all’opera sono indiretti e contraddittori, ma ripetutamente si
accenna spesso ad un «ultimo libro». 


L’autore trova la forza
di mettere in pratica il suo progetto 
durante un periodo di cura presso una clinica romana, luogo che gli
offre la giusta serenità e protezione dal mondo esterno e lo rende
particolarmente euforico; si sente finalmente deciso ad affrontare una materia
così delicata e a lungo rimandata.


I primi tre capitoli
vengono scritti velocissimamente (in meno di un mese), gli altri due saranno
aggiunti solo dopo il ritorno a Trieste e con sempre maggiore fatica a causa
della scomparsa di quella parentesi serena creatasi a Roma. Il 31 agosto del
’53 Linuccia Saba scrive a Carlo Levi





Papà non vuole continuare il libro: dice che non ce la fa, che non può
parlare di Ilio e lo vuol troncare. E questo sarà un doppio disastro: primo
perché il libro così incompiuto è brutto, secondo perché papà avrà una crisi di
nervi peggiore della altre. (p. 1298)





La stessa inconcludenza
accompagnerà la sorte di Favole e
Apologhi,
a cui Saba stava lavorando in quello stesso periodo, che 
sarebbe dovuto diventare l’epilogo del Canzoniere e attraverso il quale l’autore doveva «consegnare il
frutto ultimo degli insegnamenti di una vita».[2]


L’incertezza accompagnò
anche la scelta del titolo: secondo l’analisi di Davide De Camilli[3]
inizialmente Saba aveva pensato a Un mese
o Un anno ( sarebbe dipeso dall’arco
di tempo abbracciato nella narrazione) o anche Intimità (ma forse sarebbe stata troppo evidente la carica
autoreferenziale).  La scelta, sempre
secondo De Camilli, cadde sul nome Ernesto che può essere considerato un
acronimo dei vari pseudonimi dell’autore: la sillaba “er” e la conclusione “to”
da Umberto, “ne” da Odone (protagonista della Gallina), la “s” da Saba. Dal Dizionario dei nomi Utet è possibile
ripercorrerne la tradizione letteraria: Tasso, Tassoni, Marino, Goldoni, Verga,
De Amicis e infine in Wilde con L’importanza
di chiamarsi Ernesto
, opera teatrale che gioca sulla simile pronuncia del
nome “Ernest” e dell’aggettivo “earnest”, traducibile in italiano con
“sincero”, “onesto” (nella nostra lingua il nome “Franco” ha le medesime qualità
di aggettivo) che potrebbe essere attribuito anche al protagonista del romanzo
incompiuto di Saba e al suo autore che trova il coraggio di affrontare temi a
lungo taciuti. 








La struttura: le cinque tappe





Ogni capitolo presenta un
momento decisivo per lo sviluppo della personalità del giovane: esperienza
omosessuale, esperienza eterosessuale, prima rasatura, confessione alla madre,
nascita della vocazione artistica. 






Tutto è rivolto alla
conclusione, alla confessione, come se il rito iniziatico non potesse fare a
meno della sua divulgazione, come se la libertà si potesse acquisire solamente
enunciando i propri segreti. La funzione catartica della letteratura è spinta
alle massime possibilità.


Il primo capitolo si apre
con un’autocitazione:





Mi piacerebbe, adesso che sono vecchio,


dipingere, con tranquilla innocenza, il


mondo meraviglioso.


Da Il bianco immacolato
Signore,


in Ricordi-Racconti.





In effetti in queste
pagine Saba rievocherà il suo mondo infantile, ma, seppur vero che la
digressione incomincia in un periodo di relativa serenità, l’opera sarà
tutt’altro che una rievocazione di cose “meravigliose”.


In questo primo episodio,
dunque, il giovane Ernesto, praticante di commercio in una ditta di
compravendita di farina, dialoga serratamente con suo collega di lavoro, più
grande di lui, arrivando ad un rapporto di confidenza molto intimo. Le
reminescenze autobiografiche sono frequenti, dall’ammissione di non aver mai
conosciuto il padre, alla confessione del rapporto difficile instaurato con la
madre. Il giorno dopo si consumerà il primo rapporto omosessuale della sua vita.


Nel successivo episodio
si avverte subito l’insofferenza di Ernesto per quell’uomo.





Forse il povero ragazzo non aveva trovato in quella relazione quel po’ di
protezione paterna, che egli, rimasto più bambino della sua età e virtualmente
senza padre (lo zio tutore contava solo per le sberle e il fiorino settimanale)
 inconsciamente cercava. (537)





Per prima cosa gli
rimprovera la confidenza eccessiva, l’uso del “tu”, anche se ciò avviene
soltanto quando sono soli. In seguito, dopo che Ernesto si era assentato per
sette giorni dal lavoro a causa di una febbre intestinale, l’uomo va a fargli
visita, ma è costretto a subire le allusioni e le battute del ragazzo,
sprezzante della presenza della madre in casa. Infastidito dalla reazione
dell’uomo decide di troncare quella relazione che ormai gli procurava soltanto
noia, se non addirittura fastidio.


Alla fine del capitolo
Ernesto racconta all’uomo della sua balia e degli anni felici trascorsi con
lei. Questa figura, tanto cara a Saba, è una delle poche femminili ad essere
presente nell’opera in maniera positiva: la sua presenza è a metà tra quella di
una madre e quella di una donna da conquistare, ma di queste due incarna solo
gli aspetti positivi.





«Anche una baia el gà?» chiese l’uomo.


«Certo che la gò; e ghe voio anche ben. No son miga el solo a volerghe
ben alla sua balia. Ghe sé un grande poeta (el se ciama d’Annunzio) che vivi
ancora e che gaveva anche lui una baia. Adesso el devi esser vecio; ma ehe gà
scrito lo stesso una poesia. El la gà
intitolada Alla mia nutrice. […] Fino ai quattro-cinque ani son visudo in
casa della mia baia, in campagna. Prima, mia mama gaveva perso, per i
dispiaceri, el late. (p. 551)





La sezione del Canzoniere Il piccolo Berto è quella dove maggiormente viene ricordata la
figura della balia, come nella prima delle Tre
poesie alla mia balia
:









Al seno


approdo di colei che Berto ancora


mi chiama, al primo, all’amoroso seno,


ai verdi paradisi dell’infanzia.[4]





Nella terza poesia è
evidente come il distacco da questa donna abbia segnato profondamente la
personalità dell’uomo, incapace di dimenticarla anche dopo quaranta anni. La
spezzatura tra “Umberto” e “Saba” è il sigillo della sua personalità ancora
tormentata.





                                                       
Il bimbo


è un uomo adesso, quasi un vecchio, esperto


di molti beni e molti mali. È Umberto


Saba quel bimbo. E va, di pace in cerca,


a conversare colla sua nutrice;


che anch’ella fu di lasciarlo infelice,


non volontaria lo lasciava. Il mondo


fu a lui sospetto d’allora, fu sempre


(o tale almeno gli parve) nemico.[5]





 La madre non fu mai in grado di conquistarsi
un simile affetto, forse perché, come si capirà meglio nel quarto capitolo,
costretta ad assumere i tratti severi e censori della figura paterna,
abbandonando ogni dolcezza materna.


Nel terzo episodio sono
rievocate altri due eventi iniziatici: il taglio della barba e la prima
esperienza eterosessuale.


Il primo dei due avviene
quasi per caso, dopo che Ernesto si è fatto tagliare i capelli da Bernardo (tra
l’altro questo “rito” è indicato da Freud, nell’opera Totem e Tabù, come un equivalente simbolico della circoncisione),
barbiere di fiducia e, secondo la malelingue, padre dello stesso giovane. È
subito evidente come il taglio della barba abbia gettato il giovane nella
tristezza:





Ernesto finalmente fu lasciato libero e si alzò. Nessuno si accorse che
aveva le lacrime agli occhi. […] Un lieve venticello che si era alzato dal mare
rendeva più molesta la sensazione di freddo che Ernesto provava al collo e alle
guance.  Gli pareva di essere rimasto
nudo, e non vedeva l’ora di essere a casa. Sperava – pur sapendo che la sua
speranza era vana – che sua madre avrebbe saputo confortarlo. (561)





La rasatura (improvvisa,
«a tradimento» dirà alla madre) è il segno della crescita, sigilla l’abbandono
dell’età puerile, l’età dell’innocenza e già alla fine del secondo capitolo si
era rammaricato dell’imminente compimento dei diciassette anni. Ernesto è come
agitato da un pensiero, dal rimorso di aver concesso la sua prima esperienza
sessuale ad un uomo, proprio alla soglia dell’età adulta. Pensa agli amici che
hanno avuto un’esperienza eterosessuale prima di lui e si convince
all’improvviso, spinto dalle pulsioni dell’inconscio più che dal ragionamento:





«Se mi sverginassi, oggi, adesso, subito!» fu la conclusione a cui
giunsero le meditazioni e le melanconie di Ernesto. (p. 563)





Decide di andare da una
donna che esercitava il mestiere da sola nella Città Vecchia, quartiere
popolato da prostitute e vagabondi, ma tutt’altro che negativo per Saba. Nella
raccolta Trieste e una donna una
poesia intitolata proprio Città vecchia
testimonia l’amore per questo luogo in cui il poeta si sente davvero vivo.





Spesso,per ritornare alla mia casa


prendo un’oscura via di città vecchia.


Giallo in qualche pozzanghera si specchia


qualche fanale,e affollata è la strada.





Qui tra la gente che viene che va


dall’osteria alla casa o al lupanare,


dove son merci ed uomini il detrito


di un gran porto di mare,


io ritrovo,passando,l’infinito


 nell’umiltà.


Qui prostituta e marinaio,il vecchio


che bestemmia,la femmina che bega,


il dragone che siede alla bottega


del friggitore,


 la tumultuante giovane impazzita


d’amore,


sono tutte creature della vita


e del dolore;


s’agita in esse, come in me,il Signore.





Qui degli umili sento in compagnia


il mio pensiero farsi


più puro dove più turpe è la via.[6]





Il rapporto con la
prostituta si consuma tra gli imbarazzi ed i pensieri del giovane. Torna
continuamente alla mente di Ernesto la figura della balia.





[…] Era un odore di biancheria nuova, appena tagliata; lo stesso che gli
piaceva tanto nella casa della sua balia. […] non aveva la licenza (come forse
non l’aveva la donna da cui era salito Ernesto.


[…]Evidentemente, la donna era una slovena del Territorio. Era un’altra
somiglianza tra lei e la balia di Ernesto: queste coincidenze accrescevano, forse,
il suo imbarazzo. (p. 568)









Uscito dalla casa della
donna cerca subito una fontanella dove bere, ma ne trova soltanto una affollata
da molte donne in fila per fare provvista d’acqua. Una di queste invita le
altre a farlo passare avanti, dicendo: «Ma lassé dunque bever sto povero fio de
mama. No vedè che el mori de sede?». Una simile frase era stata pronunciata poco
prima dalla prostituta e, sommando questo pensiero alle risate della ragazze
presenti, Ernesto si sente profondamente agitato, turbato, quasi come se fosse
stato scoperto.


Alla fine del terzo
capitolo, dunque, il giovane Ernesto ha già avuto un’esperienza omosessuale ed
una eterosessuale. Il giovane sembra perdersi alla ricerca della sua vera
identità, sospeso in una condizione di bisessualità “innocente”, indotta non
dalla spregiudicatezza del fanciullo, ma dalla sua incapacità a decidere, quasi
come se questa condizione fosse propria dell’adolescenza, originaria di ogni
individuo fino alla pubertà. «All’inizio sono tutti bisessuali […] può avvenire
che più tardi loro stessi favoriscano attivamente la propria formazione
unilaterale verso un sesso». Questa citazione potrebbe appartenere al romanzo
incompiuto, invece è propria del “cattivo maestro” di Saba, Otto Weininger, che
abbiamo visto influenzare le raccolte narrative dell’autore triestino, Ebrei e L’eterna lite. Le coincidenze tra il romanzo e l’opera Sesso e carattere non finiscono qui: «lo
studioso austriaco riconosce l’esistenza soltanto di due tipi di donna, la
madre e la donna  prostituta, e una madre
e una prostituta sono le uniche due donne che compaiono nel romanzo»[7]


Il quarto episodio è quello
della confessione alla madre. Ernesto si licenzia dal suo impiego con una
lettera rovente indirizzata al suo principale, il signor Wilder,  facendo in modo che costui la leggesse in sua
presenza, quasi per ricevere la soddisfazione di essere cacciato di persona.


Tornato a casa confessa
alla madre questo ultimo avvenimento, gettando la donna nello sconforto e nella
delusione, quasi il figlio rappresentasse un secondo fallimento dopo il marito.
La signora Celestina si reca subito dall’ex principale e riesce a convincerlo a
riassumere il figlio. Tornata a casa, però, Ernesto si infuria con lei:





Ce l’aveva anche (a torto; lo riconosceva) con sua madre: questa non
poteva infatti indovinare la “vera causa” per cui si era fatto mandar via dal
signor Wilder. […] Infatti, anche se fosse andato in ufficio la sola mattina, si
sarebbe ugualmente incontrato con l’uomo. Come dirlo a sua madre? Come
farglielo capire? (p. 604-605)





In maniera contorta e
confusa riesce a confessarle la relazione omosessuale, cui seguirà la reazione
della madre prima indignata (lo chiamerà anche «assassino, peggio di tuo…», poi
rabbiosa nei confronti dell’uomo, infine «La signora Celestina (e fu un
miracolo) capì, questa volta, che suo figlio aveva più bisogno di essere
consolato che rimproverato».  Abbiamo
osservato la ricorrenza, nel Canzoniere,
dell’appellativo «assassino» che anche in questo romanzo la donna rivolge al
marito, ma è possibile stabilire ancora una volta un collegamento tra Saba e
Nietzsche che, in un suo aforisma, si sofferma sulla possibilità che tutti
siano potenzialmente “colpevoli”.





L’«assassino», che noi condanniamo, è un fantasma: «L’uomo che è capace
di un assassinio». Ma di ciò siamo capaci tutti.[8]





 Ernesto concluderà la confessione con il
racconto dell’incontro con la prostituta, cosa che aumenterà ancora di più il
dolore della donna, mentre il giovane sperava che questo secondo episodio
potesse pareggiare il primo annullandone la negatività.  Nonostante la sincera confessione sia
finalmente avvenuta non si può fare a meno di notare come il rapporto
madre-figlio risulti ormai definitivamente compromesso; ad un certo punto la
donna sembra più intenzionata ad assicurarsi che nessuno venga a sapere delle
esperienze del figlio piuttosto che preoccuparsi dell’effetto che queste
potrebbero aver avuto su di lui. In qualche modo è come se, a causa della
mancanza di una figura paterna, ella «non riuscisse a svolgere il suo ruolo
naturale di mediatrice tra padre e figlio»[9], ma è
costretta ad assumere il doppio ruolo di padre e madre: è la donna a
rappresentare il principio di autorità che di solito spetta all’uomo, e il
fanciullo si trova costretto a cercare figure affettive “materne” altrove:
nell’uomo con cui ha avuto l’esperienza omosessuale, che all’inizio lo tratta
con molto affetto; nel barbiere Bernardo, tanto protettivo nei suoi confronti
come se avesse capito lo stato d’animo del giovane dopo la prima rasatura;
nella prostituta, che si prende cura di lui con tenerezza prima e dopo il
rapporto.


Nella Quasi conclusione (scritta nel 1953), che precede l’ultimo capitolo,
l’autore motiva la scelta di interrompere l’opera affermando di sentirsi troppo
vecchio per portare avanti il lavoro, rimarcando le sue precarie condizioni di
salute, rammaricandosi della perdita del dolce ambiente romano. Certo queste
spiegazioni hanno un fondamento, ma non si può fare a meno di osservare come
l’opera appaia esauriente già dopo solo cinque capitoli, abbondantemente
sufficienti a delineare lo sviluppo interpersonale del giovane e dello stesso
autore. Spesso Saba confessò la sua paura che l’opera si allargasse a dismisura
inglobando ed “uccidendo” lo stesso Canzoniere
ed il timore è perfettamente giustificato. La conclusione dell’Ernesto, infatti, collima perfettamente con l’inizio della raccolta
poetica (Poesie dell’adolescenza che,
non a caso, Saba passerà in rassegna nello stesso ’53)  e un eventuale proseguimento del libro
avrebbe rischiato di sovrapporsi, forse fatalmente, alle liriche. La prosa
fornisce così la possibilità di integrare le poesie dell’adolescenza, ma anche
di andare oltre la loro cristallizzazione, di trattare la materia in modo più
preciso.


L’interruzione è
motivata, inoltre, dal timore dell’autore di andare troppo avanti con la
confessione, svelando particolari “proibiti”. Nell’ultimo capitolo compare
Ilio, un giovane studente di violino. La presenza del fanciullo non può essere
giustificata dalla voglia di sperimentare ancora le curiosità della vita, non
può essere considerata un ulteriore surrogato di padre (dopo “l’uomo”, il
padrone, lo zio, il barbiere). La passione per questo giovane non è
giustificabile con la voglia di sperimentare nuove emozioni: è una scelta quasi
matura, ragionata, e allora Saba decise di sopprimere Ernesto e le sue “colpe”.


In questo quinto episodio
torna a fare capolino un altro dei tre “maestri” che da sempre hanno
influenzato la scrittura dell’autore: si tratta del Nietzsche della Nascita della tragedia, a metà tra
apollineo e dionisiaco così come si presenta la figura di Ilio.


La figura del giovane Ilio è molto
simile a quella di Glauco,  amico di
infanzia del poeta, presente nella raccolta Cuor
morituro
, ma soprattutto, protagonista di un’omonima poesia della raccolta Poesie dell’adolescenza e giovanili:





Glauco, un fanciullo dalla chioma
bionda,


dal bel vestito di marinaretto,


e dall’occhio sereno, con gioconda


voce mi disse, nel natìo dialetto:





“Umberto, ma perché senza un
diletto


tu consumi la vita, e par nasconda


un dolore o un mistero ogni tuo
detto?


Perché non vieni con me sulla sponda





Del mare, che in sue azzurre onde
c’invita?


Qual è il pensiero che non dici,
ascoso,


e che da noi, così a un tratto,
t’invola?





Tu non sai come sia dolce la vita


Agli amici che fuggi, e come vola


A me il mio tempo, allegro e
immaginoso.[10]








Lingua e stile





Saba riteneva l’opera
impubblicabile a causa degli estremismi linguistici della stessa perfettamente
accordati allo scandalo tematico (lo sviluppo della persona era in primo luogo
quello sessuale, più nello specifico omosessuale). Già al termine della stesura
del primo episodio cominciarono a sorgere dei dubbi nell’animo dell’autore come
appare chiaramente in una lettera a Lina del 30 maggio 1953 scritta dalla
clinica romana in cui era ricoverato.





Tutte le persone alle quali l’ho letto […] dicono che è la cosa più bella
che io abbia scritto. (Anche io credo.) Disgraziatamente, è impubblicabile: per
una questione di linguaggio. […] la non pubblicabilità del racconto non sta
tanto nei fatti narrati quanto nel linguaggio che parlano i personaggi. E tutta
la novità, tutta l’arte, tutto lo stile del racconto (che potrebbe fermarsi a
questo primo episodio) sta proprio qui. (p. 1292)








Da un punto di vista
lessicale, dunque, non ci sono giri di parole o reticenze, ma le cose sono
definite in maniera precisa, quasi cruda, come solo una confessione sincera può
essere:





«Mettermelo in culo» disse, con tranquilla innocenza, Ernesto.


[…]


Con quella frase netta e precisa, il ragazzo rivelava, senza saperlo,
quello che, molti anni più tardi, dopo molte esperienze e molto dolore, sarebbe
stato il suo “stile”: quel giungere al cuore delle cose, al centro arroventato
della vita, superando reticenze ed inibizioni, senza perifrasi e giri inutili
di parole. (525)





I lessemi utilizzati non
si nascondono dietro perifrasi, ma conservano tutta la loro forza d’urto e la
capacità di creare scandalo in una tradizione letteraria satura di reticenze. E
ciò non avviene soltanto in prosa, ma anche nelle poesie di Saba, nelle quali
il lessico dei sentimenti non è trattato con cautela o eufemismi. D’altronde lo
stesso autore diede conferma di ciò in Amai:





Amai trite parole che non uno


osava. M’incantò la rima fiore


amore,


la più antica difficile del mondo.





Amai la verità che giace al fondo,


quasi un sogno obliato, che il dolore


riscopre amica. Con paura il cuore


le si accosta, che più non l’abbandona.





Amo te che non mi ascolti e la mia buona


carta lasciata al fine del mio gioco.[11]





Saba porta a termine
quella ricerca di un linguaggio preciso e netto che aveva iniziato decenni
prima. La sua particolarità sta nell’aver trovato questo linguaggio incisivo
facendo un ulteriore passo indietro, mettendo su carta la sua “preistoria”, gli
avvenimenti della sua vita precedenti alla scoperta della vocazione artistica. In
una lettera a Vittorio Sereni del 22 febbraio 1948 si accenna ad un libro che
avrà un impatto rivoluzionario, soprattutto dal punto di vista stilistico, sia
nel panorama culturale nazionale sia per la sua personale storia letteraria.





La spiegazione, il chiarimento – attraverso lo stile – della crisi che
imperversava; un passo ancora al di là delle Scorciatoie. (p. 1293)





L’Ernesto è redatto in italiano per quel che concerne le descrizioni e le
narrazioni, mentre la lingua dei dialoghi è il triestino.





[…] Questo dialogo (che riporto, come i seguenti, in dialetto; un
dialetto un po’ ammorbidito e con l’ortografia il più possibile italianizzata,
nella speranza che il lettore – se questo racconto avrà mai un lettore – possa
tradurlo da sé) si svolgeva a Trieste, negli ultimissimi anni dell’Ottocento. (p.
516)





 Saba, quando parlava di impubblicabilità del
romanzo, non si riferiva all’eventuale difficoltà che i parlanti non
dialettofoni avrebbero avuto, ma, come abbiamo detto, alla scelta di definire
le cose in maniera fin troppo esplicita. 


L’italiano è sempre stata
la lingua letteraria della penisola, il codice alto della nostra cultura, e
allora ecco che il dialetto poté svolgere la funzione di veicolare le tematiche
più “basse”, proprio perché lingua materna dotata di maggiore naturalezza. Non
c’è nessuna reticenza, quindi, nella scelta di voler utilizzare il triestino,
sia perché la forma utilizzata è più vicina a quella di un italiano regionale
(in generale il dialetto è ammorbidito, italianizzato ortograficamente) , sia
perché i termini più difficili sono tradotti in italiano. Al massimo questo
codice può aver offerto la possibilità di diluire il messaggio scabroso, poiché
appariva  lontano alla maggior parte dei
lettori.


Il dialetto, dunque,
rappresenta un ritorno alle origini, offre la possibilità di riconquistare
l’innocenza perduta nominando e delineando le cose tramite la forma originaria.
Se l’italiano ha il compito di veicolare le spiegazioni della storia e il lato
razionale di essa, al dialetto spetta il compito di formulare le emozioni, ma
senza mai andare troppo oltre. L’autore sembra intenzionato a riprodurre la
cadenza triestina più che la gergalità pura. 






La presenza del dialetto
è già innovativa di per sé, non c’è bisogno di doverlo spingere all’estremo: lo
stile, infatti, non è turbato dalla presenza del vernacolo, ma è “movimentato”
grazie alla fitta presenza di parentesi, trattini, virgolette, pause,
spezzature del discorso, inversioni e anticipazioni :





- Iddio castiga,- disse allora, diventato, per una volta tanto, ipocrita,
Ernesto, che aveva perduta di colpo la fede, il primo giorno che s’era, sul
consiglio esempio del cugino corruttore, masturbato.


[…]


Il quale [Stefano] – non c’è persona, per quanto arida, che non abbia,
qualche volta, uno slancio generoso – pensò, per un momento, di corrergli
dietro e di stringergli, per comunanza d’età, la mano.





 Oltre a queste due lingue è utile soffermarsi
sulla presenza di una terza: il tedesco. La lingua germanica è utilizzata non
attraverso i calchi tipici della prosa sveviana, ma è presente con formule
cristallizzate, stereotipate, e Saba la traduce in ogni occasione. La lingua
dei dominatori è rievocata solo come struttura, come forma ormai scissa da ogni
significato di potenza, come scarto linguistico.


Nel dodicesimo sonetto di Autobiografia (1924) Saba dà un
definizione della raccolta Trieste e una
donna
:





12


[…]


Trieste è la
città, la donna è Lina,


per cui scrissi
il mio libro di più ardita


sincerità; ne
dalla sua fu fin’


ad oggi mai
l’anima mia partita.
[12]





Senza nulla togliere a
questa considerazione, che comunque resta valida per quanto riguarda il Canzoniere, non c’è dubbio che con l’Ernesto si sia spinto oltre sul versante
tematico dell’onestà e su quello stilistico della forma arida e diretta. Ha
raggiunto in prosa quei traguardi che, forse, non poteva conseguire in poesia.


L’audacia linguistica va
di pari passo con l’architettura formale del libro, completamente diversa da un
romanzo di formazione ottocentesco, «mirante a cogliere i rapporti di causa
effetto nelle reazioni sentimentali tra i personaggi»[13], ma
nell’Ernesto tutto si svolge
all’interno del protagonista, e sono semmai i suoi turbamenti psicologici ad
avere un’ influenza sul mondo esterno e non viceversa. Di ottocentesco c’è solo
la «scelta distanziante della terza persona come mediatrice del racconto»[14].


La sincerità del discorso
risponde ad un bisogno fondamentale dell’autore: essere compreso, condiviso e
assolto, entrare in contatto diretto con il lettore ed infatti “coerente con
questo sviluppo è una parte sostanziale delle esperienze biografiche e di
quelle letterarie di Saba”.[15]


Certo solo un grande
scrittore poteva riuscire nel miracolo di chiamare le cose col loro nome,
spingendosi fino alla descrizione realistica di un rapporto omosessuale, ma riuscendo
contemporaneamente a mantenere un tono candido, innocente.


Scriverà Elsa Morante in
una locandina con cui l’Einaudi accompagnerà l’uscita dell’opera:





Le stesse cose che altri, nel dirle, potrebbero rendere oscene, o
ridicole, o sordide, si rivelano invece, dette da Saba nelle loro chiarezza
reale, naturali e senza offesa. Lasciando limpida, alla fine della lettura,
l’emozione degli affetti.














[1] M. Lavagetto, Conferme
da Ernesto
, «Nuovi Argomenti», LVIII, 1978, p. 50.




[2] M. Paino, La tentazione della
leggerezza. Studio su Umberto Saba
, cit.,  p.181.










[3] D. De Camilli, Da
Umberto ad Ernesto
, in Id., «Si pesa
dopo morto»
, «Rivista di letteratura italiana», XXVI, 1. p. 23-29.







[4] U. Saba, Tre
poesia alla mia balia,
in Id., Il
Canzoniere
,cit.., p.387.







[5] U. Saba, Tre
poesia alla mia balia
, in Id, Il
Canzoniere
, cit., p. 389.










[6] U. Saba, Città
vecchia
, in Id, Il Canzoniere,
cit., p. 81.










[7] A. Cinquegrani, L’officina
di Ernesto
, in Id., Saba
Extravagante
, «Rivista di letteratura italiana», XXVI, 2-3, p. 410.







[8]
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1879-1881,
in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di
Giorgio Colli e Mazzino Montinari, traduzione di Mazzino Montinari e Ferruccio
Masini, Milano, Adelphi, 1964, p. 274.







[9] R. Esposito, Per la psicoanalisi
in “Ernesto
”, in <<Critica letteraria>>, VI, 1978, pp 572.







[10] U. Saba, Glauco,
in Id, Il Canzoniere, cit., p. 14.










[11] U. Saba, Amai,
in Id, Il Canzoniere, cit., p. 516.










[12] U. Saba, Autobiografia,
in Id, Il Canzoniere, cit., p. 254.







[13] R. Esposito, Per
la psicoanalisi in “Ernesto
”, cit., p 574.







[14] A. Daniele, Lingua e
dialetto nell’Ernesto di Saba
, in “Studi novecenteschi”, n. 16, 1977, p.
97.







[15] G. Mura, Il
livello emozionale del discorso in Umberto Saba
, in Id., Saba Extravagante, «Rivista di
letteratura italiana», XXVI, 2-3, p. 240.








N.B.: Testo estratto da una tesi di laurea. Tutti i diritti riservati.